Bottega del gusto Tuscia Viterbese

Gojo (Elogio del) di Alfonso Antoniozzi  (Cantante lirico e regista, viterbese e contemporaneo)

A Viterbo, e credo solo a Viterbo, esiste una parola particolare: “gojo”. “Chi è il gojo?”, mi chiedono un po’ tutte le volte che mi sentono usare questo aggettivo, e ogni volta mi arrampico sui muri perché “gojo” non si traduce, ovvero non esiste una parola precisa nel dizionario italiano che copra tutte le accezioni di “gojo”.
“Tu see gojo” si dice quanto qualcuno ti fa una proposta poco responsabile, come andare a caccia de sorche de fogna nel torrente Urcionio, ma si dice anche “le see gojo” quando qualcuno fa una battuta molto divertente; “sta attento che quello è gojo” ti mette in guardia da uno potenzialmente folle, “sentimo un po’ come sta quel gojo” si dice prima di telefonare a una persona molto simpatica. Con “ma che, see gojo?” si apostrofa chi sta per compiere qualcosa di altamente pericoloso, e “gojo come un’ovo covato” si dice di qualcuno che si ritiene sostanzialmente inutile per la società.
Dunque il gojo è matto, folle, divertente, fuori dagli schemi, sconsiderato, simpatico, pericoloso, inutile.
Il gojo, in poche parole rubate ad altri per descrivere la carta che trovate in cima a questa nota: “assume tutte le sfumature tra l'innocenza e la follia, compresi l'istinto, l'originalità, la spensieratezza, le azioni incomprensibili, il distacco della mente. È la parte irrazionale dell'uomo, che può condurlo sia nel bene che nel male. Simboleggia la ricerca di cambiamenti, cammino verso l'evoluzione, gioia di vivere, sregolatezza, sogni ad occhi aperti, un evento determinante e inatteso. Ma anche la follia, intesa come alienazione dalla realtà, il restare confinati nel proprio mondo interiore. Può indicare indifferenza, depressione, vuoto. È anche smarrimento, voglia di fuggire dal passato, irresponsabilità, esibizionismo, immaturità, inesperienza, superficialità”.
Il gojo è niente altro che il Matto dei tarocchi, nella sua accezione positiva o negativa: frequentarlo o essere amici del gojo può portarti a esplorare vette altissime o abissi inenarrabili, ma non dipende dal gojo, dipende da te. Il gojo, in quanto gojo, semplicemente ti apre delle porte, ti smonta delle certezze, ti fa camminare sul filo: se caschi, cazzi tuoi. Quello, il gojo, resta sempre in equilibrio. Come fa? Facile: è gojo.
E se l’opera può insegnarci qualcosa, il gojo è Parsifal: è l’innocente che è arrivato al punto massimo di evoluzione, col Graal in mano. Il gojo è intimamente convinto che la vita sia un gioco, un’illusione ottica, e con le regole ci scherza e non per il piacere di infrangerle: se conoscesse questo piacere le avrebbe riconosciute in quanto regole, e non sarebbe gojo. Il gojo invece infrange le regole proprio perché non le riconosce in quanto tali, tanto che la sua risposta a chi gli fa notare che sta passando il segno è spesso “si, lo so, embé?”.
Il gojo ti forza a vivere la vita senza intellettualismi, senza snobismi, a considerarla semplicemente per quello che è. Non è sovrano di alcunché, non è sacerdote di nulla, è semplicemente gojo. Il gojo ha un segreto nascosto: non solo non ha paura di morire ma, cosa assai più difficile e alta, non ha nemmeno paura di vivere. Vuole fare una cosa? La fa, e che le conseguenze si fottano.
Il gojo non “provoca”, semplicemente agisce. Il gojo non “polemizza”, semplicemente dice. Il gojo non “giudica”, semplicemente ama. Non “pianifica”, semplicemente vive. Il gojo non lo puoi spiegare perché, essendo gojo, sfugge alle definizioni. Non può essere definito: se si potesse farlo, non sarebbe gojo.
Per questo, ogni singola volta delle infinite volte che nella mia vita m’è stato detto “tu see gojo”, l’ho sempre preso come un complimento e dentro di me ho risposto “magari!”.